Archive for the ‘Musica’ Category

Vi ricordo che domani, alle 18:00, parliamo di critica musicale… Stavolta dal vivo
giugno 9, 2015

Capitoni_invito

Il pianoforte di Myung-Whun Chung*
aprile 9, 2014

Il nome di Myung-Whun Chung, tra più noti della direzione d’orchestra, è raramente associato al pianoforte, strumento che il maestro coreano suona fin da quando era piccolo e che anzi costituisce il punto di inizio della sua carriera di musicista. Nel tempo Chung si è affermato come direttore lasciando in secondo piano la sua attività di pianista, ma adesso sorprende tutti incidendo un disco per pianoforte solo, il primo in oltre quaranta anni di carriera, per l’etichetta ECM. A scorrere i titoli sembra di trovarsi davanti a una sorta di “greatest hits” del pianoforte: si passa dai più noti Improvvisi di Schubert e Notturni di Chopin a pezzi che ormai quasi nessuno incide più come Per Elisa di Beethoven e le Variazioni mozartiane su “Ah, vous dirai-je Maman”. A partire da un Clair de Lune di Debussy eseguito in maniera meravigliosa, dilatata, al cui suono “pettinato” ed etereo contribuisce certamente la mano di Manfred Eicher, scopriamo un pianista raffinatissimo che con un eccesso di modestia dice: «Non lo considero un disco da vero pianista, sono solo un pianista dilettante». Il Cd nasce in un periodo che costituisce una seconda vita per Chung, ora che, sessantenne, ha deciso di dedicarsi a ciò che lo rende contento: «Molto tempo fa dissi: “quando farò sessanta anni smetterò con la musica”. Li ho compiuti l’anno scorso e ho deciso di limitare l’aspetto puramente professionale del mio lavoro e dedicarmi di più a ciò che mi piace».

Maestro, perché ha inciso un disco per pianoforte sollo adesso?

«È stato mio figlio a suggerirmi di farlo come regalo per i miei nipoti. E allora ho pensato che sarebbe stato bello tramandare in modo familiare la conoscenza della musica attraverso questo disco, fatto di brani conosciuti anche dai ragazzi. Tutti i pezzi scelti hanno a che fare con la mia vita. Le variazioni di Mozart sono proprio indirizzate al pubblico dei più piccoli, il tema è una delle prime cose che imparano a lezione di musica; il brano di Čajkovskij lo suonavo sempre in pubblico, quando ero a Mosca per il concorso nel 1974, perché i russi lo amavano; Clair de lune è dedicato alla mia seconda nipote che si chiama Lua, cioè luna, in portoghese; i Notturni di Chopin li eseguivo in duo con mia sorella nella trascrizione per violino e pianoforte… E così via, ogni brano è legato alla mia esistenza e alla mia famiglia».

Si sente più a suo agio con l’orchestra o con lo strumento?

«Ho sempre trovato molto strano il ruolo del direttore, che è l‘unico che non suona. Guidare un’orchestra mi pare interessante soprattutto nella fase che precede l’esecuzione. Mi sento come l’allenatore di una squadra di calcio: si fa un piano della “partita”, cioè il concerto, si controlla tutto quello che gli altri fanno, si trovano gli equilibri per realizzare un’idea generale. È come se si collaborasse a un quadro, senza però avere la soddisfazione di averci messo le mani sopra. Alla fine mi rendo conto che produrre suono direttamente dalle proprie mani è un’altra cosa e che ho bisogno di suonare, altrimenti ci si sente incompleti.

Allora perché non continua col pianoforte?

«Non lo so, forse farò altre cose col pianoforte, ormai però non mi sento più da anni un pianista, dovrei rimettermi a studiare seriamente la tecnica. E comunque, nonostante tutto, sono sempre stato più attratto dalla musica sinfonica».

Lei è attivo nella battaglia per la salvaguardia per l’ambiente. Come nasce questo suo interesse?

«Ha avuto origine quando vivevo a Roma, l’estate andavo con la mia famiglia al mare, a San Felice Circeo. Vicino a casa nostra c’era un altro direttore d’orchestra, Peter Maag, il quale mi disse che si sarebbe trasferito altrove per via dell’inquinamento e dell’incuranza della gente nello gettare i rifiuti. Mi sono così scoperto sensibile alle questioni ambientali. Come musicisti non possiamo risolvere i problemi, ma in quanto personaggi pubblici possiamo sollevare l’attenzione e allora ho pensato a festival musical ecologici per bambini, costruendo programmi musicali sugli elementi naturali, o gli animali, sempre con un messaggio ecologista. È una piccola cosa per sensibilizzare l’opinione pubblica».

Trova rapporti tra musica e politica?

«La politica non si occupa di musica perché non la ritiene tra le cose più importanti, e in generale i politici non hanno rapporti con compositori o direttori d’orchestra. Preferisce avere rapporti con le forze dell’ordine perché attraverso di loro possono gestire il potere, con noi non ci riuscirebbero. Tuttavia quello che mi sembra di notare è che la musica classica ormai sia così radicata, tanto profondamente, che sia impossibile ignorarla o porle dei limiti. Si potrebbe osservare che, come avviene in Italia, i teatri si trovino in difficoltà, ma credo che le difficoltà siano necessarie, servono a fare meglio. La cosa peggiore nell’arte è il “comfort”, senza crisi e senza sforzo non si va avanti. L’errore più grande che si può fare adesso è quello di smettere di impegnarsi; ora piuttosto è il momento di studiare di più. Una frase del mio maestro Carlo Maria Giulini mi ha sempre accompagnato: “ci vuole tempo”. Voleva dire che tutto si può fare attraverso lo studio e che prima o poi si riesce».

 

* versione integrale dell’intervista pubblicata su “la Repubblica” del 9 aprile 2014 a pag. 49

 

Noam Chomsky (intervista integrale*)
gennaio 18, 2014

«Non penso che ci sia un politico che abbia mai prestato una qualche attenzione a ciò che scrivo, dico o faccio». A 85 anni, Noam Chomsky si rende bene conto che pureessere uno degli intellettuali più ascoltati del pianeta, non cambia la direzione che il mondo ha preso. Il grande linguista americano, a partire dagli anni 70, ha scelto seriamente la strada del pensiero e dell’attivismo politico che lo ha portato oggi a essere l’interlocutore privilegiato nei dialoghi sui problemi di ordine mondiale. Una raccolta dei suoi saggi politici, I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie, in libreria il 23), mette ora in fila tutte le sue risposte, generalmente volte a condannare i sistemi neoliberisti e neocolonialisti.  Nel frattempo la sua idea di una grammatica universale(facoltà mentale comune a tutti gli individui) e la teoria della grammatica generativa(l’insieme, finito, delle regole che danno luogo alle potenzialmente infinite formulazioni delle frasi) hanno iniziato a camminare da sole: «La grammatica generativa è ormai una scienza, e come tale raccoglie i risultati prodotti dalla partecipazione collettiva di tanti studiosi – dice -. Non riesco a riassumere ora i progressi degli studi, ma ci sono passi in avanti sostanziali, soprattutto riguardanti nuove domande che preludono a interessanti scoperte». Il 25 gennaio a Roma, all’interno del Festival delle Scienze, Chomsky terrà una lezione magistrale in cui parlerà «di alcuni argomenti concernenti il linguaggio e la mente, delle loro radici nell’età scientifica moderna e nell’Illuminismo, il loro stato attuale e quali considerazioni danno suggerimenti sui limiti possibili della comprensione umana». Ma il pubblico italiano potrà incontrarlo anche la sera prima in un curioso spettacolomusicale, Conversazioni con Chomsky, una talk-opera multimediale del compositoreEmanuele Casale, ove il linguista parteciperà a «una sessione di domande sugli argomenti della linguistica, dell’economia e della politica»… Con qualche considerazione finale – e forse previsione – anche sulla situazione Italiana.

Professor Chomsky, lei parteciperà a un’opera musicale. Si dice spesso che la musica sia un linguaggio universale. Ma, innanzi tutto, la musica è un linguaggio?

«Il concetto di linguaggio nell’uso comune è vago e informale. È comunque possibile formulare almeno alcune chiare domande. Per esempio quali relazioni ci sono tra musica e linguaggio umano? Ci sono studi su questo e molte idee interessanti ma la domanda generale non ha risposta. È come domandarsi se gli aeroplani volino (certo, ma non come le aquile) o se i sottomarini nuotino (non proprio come delfini). Sono faccende che hanno a che fare con le metafore che scegliamo di accettare, non sono questioni fattuali».

Cosa differenzia il linguaggio verbale dagli altri sistemi di segni (suoni, figure, gesti)? Non è certamente solo una questione semantica, ci sono altri aspetti da considerare…

«È importante ricordare che il linguaggio umano non è necessariamente verbale. Può essere espresso attraverso suoni, il modo più comune, o segni grafici. Come abbiamo scoperto in anni recenti, molti linguaggi simbolici che sono nati nel mondo sono particolarmente simili ai linguaggi orali. A ogni modo il linguaggio umano differisce da altri sistemi di segni in alcuni importanti aspetti: struttura, uso, rappresentazione neuronale.  È stato anche scoperto che lo stesso gesto può funzionare in maniera diversa se viene usato in un sistema di segni o se in un contesto non linguistico. Le proprietà fondamentali del linguaggio umano appaiono uniche e sono probabilmente emerse relativamente di recente rispetto al processo evolutivo. La facoltà del linguaggio sembra essere ampiamente dissociata da altri sistemi cognitivi umani e completamente differente dai sistemi di comunicazione animali».

Se il linguaggio è generato dalla grammatica e la grammatica fondata su strutture foniche, si potrebbe dire che il linguaggio si origina più probabilmente dal suono che dal segno?

«Quello che possiamo dire è che il suono è solo una delle forme di esternalizzazione del linguaggio e non sembra essere essenziale della sua natura. Concordo con la tradizione che tende a considerare il linguaggio primariamente uno strumento del pensiero e la sua esternalizzazione, in una o un’altra modalità, un processo secondario. È tuttavia vero che i segni grafici sono cosa piuttosto recente nella storia dell’uomo, tra l’altro solo in certe culture, e che non possano essere relazionati all’origine del linguaggio».

Cosa pensa delle recenti ricerche neurolinguistiche? Sembrano entrare nel solco che lei ha tracciato. I risultati scientifici mettono a tacere la diatriba tra “innatismo” e comportamentismo?

«La neurolinguistica sta portando avanti un lavoro molto interessante. In particolare a Milano, l’iniziativa di Andrea Moro ha fatto emergere importanti prove sulle proprietà basilari del linguaggio umano. Nonostante io abbia sempre trovato fuorviante parlare di dibattito tra comportamentismo e “innatismo” (e soprattutto su questa parola bisognerebbe accordarsi, perché non ha un significato ben definito), non si può seriamente dubitare che ci sia un alto numero di fattori innati che entrano in ogni aspetto della funzione cognitiva. L’unica alternativa è la magia. Il lavoro scientifico è determinare questi fattori: per esempio, qual è la dote biologica che rende il bambino, e non un altro organismo, in grado di sviluppare le capacità che io e lei stiamo usando ora? E così domande simili sulle facoltà mentali e non. Anche icomportamentisti ormai credono a fattori innati. Il comportamentismo così come era nato è scomparso, ne restano pochi concetti utili e alcune sofisticate tecniche sperimentali».

Possiamo definire il secolo scorso, in filosofia, il secolo della “svolta linguistica”. La filosofia del linguaggio è ancora un nodo centrale della speculazione?

«La filosofia del linguaggio è ancora un campo pieno di vita, sebbene ormai una parte sia stata assorbita dalla più generale filosofia della mente. E ormai la filosofia anglo-americana, centro della svolta linguistica nel dopoguerra, è cambiata prendendo direzioni molteplici e differenti».

Se il linguaggio informa l’esperienza, quanto i problemi del mondo dipendono dal linguaggio?

«Difficile pensare che esista un’attività umana in cui il linguaggio non sia direttamente coinvolto. Dire che ci sia una dipendenza dal linguaggio è plausibile ma è una questione davvero troppo seria e indefinita per esaminarla».

Il suo ultimo libro si intitola I padroni dell’umanità. Chi sono costoro?

«I centri corporativi delle società industriali avanzate vogliono farsi ricordare come i padroni dell’umanità. Il termine è preso in prestito da una frase di Adam Smith: “la vile massima dei padroni dell’umanità: tutto per noi, niente per gli altri”. È esattamente la proprietà istituzionale delle società capitaliste».

In uno dei suoi saggi lei scrive che potere e verità sono in conflitto e che gli intellettuali o ricercano la verità o comandano. È dunque impossibile il governo dei filosofi sognato da Platone?

«Bakunin predisse che il governo dalla classe emergente della “scientific intelligentsia” avrebbe portato alle peggiori e brutali autocrazie della storia umana. È risultata un’osservazione lungimirante. Non c’è dunque ragione per aspettarsi che il governo dei filosofi, o quello di una qualsiasi altra élite, sia migliore».

Lei è sempre molto critico verso gli Stati Uniti. Qual è stato il loro più grande errore?

«Gli Stati Uniti sono fondati su due enormi peccati originali: la schiavitù e l’eliminazione della popolazione indigena. Senza attraversare la storia, ci sono buone ragioni che spiegano perché gli Stati Uniti siano considerati come tra i maggiori rischi per la pace mondiale oggi. Allo stesso tempo, con tutti i suoi difetti, la societàamericana è per parecchi aspetti la più libera del mondo, il che non è un piccolo risultato».

Tra i temi che le stanno più a cuore c’è l’ambiente. Quali rischi dobbiamo temere?

«Ci sono due ombre scure che incombono su ogni considerazione riguardo al futuro: la catastrofe ambientale e la guerra nucleare. La prima è già tristemente una realtà; l’altra è un rischio sempre presente che non accenna a dissolversi, è quasi un miracolo che siamo scappati a un disastro nucleare non così tanto tempo fa. Pessimismo e ottimismo sono questioni soggettive, non sono importanti: qualunque sia il proprio stato d’animo, le azioni da intraprendere sono essenzialmente le stesse».

* pubblicata a pag. 39 de La repubblica del 18 gennaio 2014

Intervista (integrale*) a Michela Lucenti
gennaio 7, 2014

Il Flauto Magico di Mozart è un’opera così ricca di simbolismo, allegorie, strati di lettura, che risulta un succulento banco di prova più per i registi che per gli interpreti. Tanto che è una di quelle più messe in scena dai registi non “puri”. Questa volta si cimenta nell’allestimento Michela Lucenti, coreografa ligure poco più che quarantenne alla sua prima regia lirica da sola, esponente di prim’ordine del teatro danza italiano: «io lo chiamo “teatro fisico” – dice – perché sottende l’azione». In scena al Teatro Comunale di Bolzano l’11 e il 12 gennaio, questo Flauto Magico si preannuncia interessante e originale proprio perché l’approccio personale che Michela Lucenti con la compagnia Balletto Civile (attualmente in residenza al Teatro Due di Parma), di cui è direttore artistico, usa trasferire in ogni realizzazione.

Lucenti, lei è abituata a creare i suoi lavori dall’inizio alla fine. Come si regola di fronte a un’opera classica, totalmente scritta, quasi intoccabile?

«Lo sforzo e la sfida stanno proprio nel lavorare su opere “blindate”. Quella di Mozart però è così ricca che mi sono sentita davvero libera di esprimere le mie idee. Fondamentale è stato il direttore Ekhart Wycik che ha capito il lavoro e ha aggiustato il tiro. Abbiamo infatti lavorato a stretto contatto, le prove prevedevano la parte musicale e quella sulla scena insieme, così da scrivere le idee direttamente in partitura, non appicciandole in secondo momento. Così tutto ha viaggiato insieme, in armonia».

Come sarà questo Flauto Magico e che ruolo avrà la danza?

«L’idea di fondo è che questo mondo immaginario sia la dimensione in cui si scontrano buio e luce, mascolino e femmineo, il basso e l’alto. La città di Sarastro sarà sotto il mare, dove è sprofondata e verrà fatta riemergere da Tamino e Pamina.La danza entra grazie ad alcuni danzatori del Balletto Civile, le coreografie sono perfettamente integrate, provate insieme all’opera. Sono gli schiavi di Monostatos, i sacerdoti: eterni dervisci, continuamente in scena che si mescolano al coro».

Tra ermetismo e psicologia, il Singspiel mozartiano si presta a diverse letture. Qual è la sua?

«Anzitutto ritengo che la simbologia deve essere compresa da tutti, anche senzasapere di massoneria e tradizioni ermetiche, e su ciò ho puntato. Vedo questa favola come un processo di iniziazione all’amore, un percorso fatto di prove che giovani uomini e giovani donne devono superare per incontrare l’altro da sé. In quest’operavedo la crescita, l’emancipazione dell’essere umano, la formazione dell’adolescente che fa delle scelte da solo, nonostante in testa abbia quello che genitori e società glihanno inculcato. Alla fine, nella vita, le decisioni si prendono autonomamente, magarianche goffamente. Mi piacerebbe che i giovani capissero come messaggio che c’è un istinto interno che permette di fare delle scelte, basta ascoltarsi».

Lei, danzatrice, attrice e coreografa, ha a che fare molto con il gesto. Questo è un caso in cui dovrà vedersela anche con i cantanti, quindi il suono. Come fa comunicare questi due linguaggi non verbali?

«Per me lavorare con i cantanti è molto bello, hanno qualcosa del simile ai danzatori.Cioè sanno che hanno uno strumento, la voce e il corpo, da preservare e da usare. Alcontrario di quanto fa l’attore, che è più sfacciato: la tecnica per gli attori è già atta a raccontare. Io cerco di chiedere la verità a danzatori e cantanti; chiedo: comprendi quello dici. Far chiedere loro il senso di ciò che fanno è per me l’aspetto più interessante. Per esempio, non si devono spostare sul palco solo perché serve al regista, ogni movimento deve avere a che fare con l’azione scenica, con una derivazione psicologica. La gestualità arriva a parlare solo quando l’interprete è assolutamente concentrato su ciò che sta facendo. A volte il gesto che propongo nelle mie coreografie sembra sciatto, poco curato… Proprio perché, ha la pretesa di essere vero. Al di là di un’affettazione estetica».

Oggi il teatro danza è completamente sdoganato. Ma cos’è precisamente,un’esigenza moderna di comunicazione o semplicemente una delle tante possibilità estetiche della danza?  

«Per me è un’esigenza naturalissima. Io sono nata con la danza classica tradizionale.Poi ho incontrato Pina Bausch che mi ha dato una “mazzata” facendomi vedere che la danza è un’altra cosa. Per Pina era fondamentale studiare il teatro e così ho capito che mi sarebbe piaciuto e stare anche dall’altra parte. Ho quindi lo studio della recitazioneallo stabile di Genova e il passaggio tra il teatro alla danza è stato naturale, oggi le due cose vanno parallelamente. Io sono anche la dimostrazione che non è vero che bisogna cominciare presto per fare tutto, oppure che o fai l’uno o fare altro…Sbagliato! Io ho fatto entrambe le cose. Si possono fare, si diventa interpreti straordinari, che non significa riuscire a metà, essere mezzi attori o mezzi danzatori».

Questa ipotesi di far convergere più linguaggi certamente è coerente con una sua idea di spettacolo “totale”.

«Non si deve avere vergogna di cercare di concepire un’operazione, una creatura, in modo totale. Questo non toglie assolutamente niente a chi sceglie di lavorare su unasola specificità. A me piace immaginare spettacoli trasversali… Bisognerebbe smetterla in Italia di stare in un antagonismo, che deriva da una paura di sperimentare che a ben guardare spaventa organizzativamente, non artisticamente. Separare nettamente è un errore. Tutto questo è normale all’estero, qui ancora abbiamo problemi con la Siae perché a volte non sappiamo se depositare uno spettacolo in“teatro”, “danza”, “musica”, “operetta”, solo perché prevede i cantanti…».

La sua compagnia si chiama Balletto Civile… Un nome “impegnato”.

«Balletto Civile nasce nel 2003. Ho sentito l’importanza della drammaturgia e dellavoro sul corpo. Era importante chiamarlo “balletto” perché l’etimologia è “azione danzata”. Avevo in mente di liberarlo dall’immaginario delle crinoline, e di proporre un pensiero che diventava danza. In quel periodo poi ero un’occupante, unaimpegnata, e chiamarlo “civile” era legato al concetto di “civis”: volevo che fosse concreto, informato sul presente. Il corpo è usato da noi come testimonianza e Balletto Civile è un organico comunitario di danzatori che leggono il tempo che vivono».

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/01/06/michela-lucenti-dalla-danza-mozart-porto-dervisci.html?ref=search

In libreria
settembre 30, 2013

Tutto ciò che c’è da sapere sul mio nuovo libro è ben riassunto nella quarta di copertina.

Però solo oggi mi ricordo di una frase di Robert Schumann che avrei potuto mettere in esergo al libro. L’avevo stupidamente dimenticata:

“la musica sarebbe un’arte ben piccola se risuonasse soltanto e non avesse un linguaggio né dei segni per gli stati d’animo”

… Tuttavia, in effetti, una buona introduzione alternativa è questo mio “dialogo socratico” pubblicato qui

Musica e filosofia WEB

 

Morton Subotnick
settembre 27, 2013

A oggi, uno dei musicisti più visionari del mondo ha 80 anni. Nato nel 1933, Morton Subotnick non sa fare altro che guardare al futuro, il passato non gli interessa proprio. Ha colto, nella sua vita di musicista, tutte le innovazioni fondamentali, non appena si affacciavano, usandole per fare musica, e tutti i musicisti “elettronici” di oggi gli devono qualcosa. Il pioniere americano della musica elettronica suonerà per la prima volta in Italia al Barezzi Festival, rassegna multiforme che si aprirà proprio con la performance di Subotnick e l’artista visivo Lillevan il 28, e proseguirà con musicistidiversissimi, da Wim Mertens a Enrico Rava fino a novembre. «È come se fosse la prima volta in Italia per me – dice Subotnick -. Ho partecipato a una Biennale di Venezia nel 1963, quando lavoravo con Berio. Poi davvero non so perché siano passati cinquanta anni e non sono più venuto. Mi esibirò con il nuovo sintetizzatore Buchla e il mio computer. È una sorta di grande medley dei miei dischi e si chiama appunto From Silver Apples Of The Moon To A Sky Of Cloudless Sulphur. Cercherò di dare un nuovo punto di vista a quelle composizioni, non è un lavoro di nostalgia. È una performance che nasce spontanea, faccio come farebbe un dj oggi: una combinazione di clip». Subotnick ha una breve storia da compositore classico, appena incontra negli anni ’50 le tecnologie dell’epoca, se ne innamora e si inserisce subito nel solco della musica elettroacustica americana fondando con Terry Riley, Steve Reich e altri il San Francisco Tape Music Center «Ho iniziato a comporre sessant’anni fa, con gli strumenti tradizionali, studiavo con Darius Milahud che mi ammirava ma che odiava la mia musica: del resto scrivevo secondo i canoni del serialismo di Webern. Ma mi sono fermato prestissimo, all’inizio degli anni 60 e da lì mi sono dedicato solo agli strumenti elettronici: con l’ingresso dei transistor e la diffusione dei nastri magnetici negli anni 50 capimmo che il mondo stava cambiando». Subotnick si fa conoscere nel 1967 quando pubblica Silver Apples of the Moon, il primo disco interamente realizzato con un sintetizzatore: è il Buchla, diretto rivale del Moog, alla cui costruzione Subotnick contribuisce in modo decisivo: «Sono due le cose che ho cercato di portare nel Buchla: una è stata il touch-play, la sensibilità del tocco. Puoi dare emozione, intensità, attraverso i polpastrelli che sono pieni di terminazioni nervose e si perdono spesso sui tasti degli strumenti tradizionali.L’altro era la possibilità di manipolare la voce, cosa che siamo riusciti a fare in un paio d’anni. Per me il pianoforte era il diavolo, la tastiera era da superare, niente di ciò che facevo doveva somigliare alla tradizione». L’assenza della tastiera era la principale differenza con il Moog, che ebbe un successo maggiore proprio per la sua versatilità. «Sapevo che non erano i tasti bianchi e neri il futuro della musica. Non sitratta di migliorare gli strumenti, ma di crearne di nuovi. Il pianoforte è perfetto da due secoli. Spero si vada verso strumenti che non chiedano di usare le dita, di fare le scale, ma che si muovano in base al gesto». La musica di Subotnick scaturisce proprio da questa concezione dell’analogico come possibilità di identificazione tra gesto e suono. Come con tastiera di una macchina da scrivere si possono produrre diversi simboli con lo stesso gesto, anche tra la pressione del tasto di un pianoforte e il suono ricavato non c’è nessuna relazione:  «l’interfaccia non poteva più essere una tastiera.Il pianoforte non è analogico veramente. La voce lo è il gesto, anche». Il paradosso è che la tecnologia permetterebbe di tornare alla relazione tra atto fisico e suono, eludendo l’artificio del sistema notazionale: «Mi serviva uno strumento che potesse tracciare una curva sonora, continua, non creata da tantissime note in successione.Sogno un unico strumento in cui tutti si possano muovere e decidere insieme, senza il direttore d’orchestra, dove andare. Senza spartito, senza note». Per Subotnick è fondamentale la dimensione spaziale («dipingo il suono in una tela di spazio e tempo», dice) e riversa questo concetto, assieme a quello del tocco e dell’assenza dipartitura, in ogni sua invenzione, come nel Pitch Painter, un’app per iPad per insegnare la musica ai bambini «è per bambini dai 3 ai 5 anni ma è divertente anche per gli adulti. Puoi creare musica mentre la suoni e c’è una corrispondenza diretta tra la mappa dei suoni che disegni e il risultato acustico. La sfida è identificare la musica con il software. I ragazzi di oggi non crescono necessariamente avendo a che fare con strumenti musicali, il software però può suonare. Una volta usavamo il mouse, ma il“point & click” è di quanto più innaturale ci sia. I dispositivi touch invece rispondono direttamente al nostro corpo».

 

Per Subotnick il mezzo è più che mai il messaggio:«Stockhausen e altri hanno trovato modi per scrivere la musica elettronica. Ma a me la cosa non ha mai interessato. Ero interessato al suono. E ho sempre pensato che il giusto supporto di scrittura fosse il disco, che non è un contenitore, ma una parte fondamentale del contenuto. Il disco rappresenta la perfezione. La performance live il “momento”, cioè la verità esecutiva che prevede l’errore, ma anche il rapporto umano con il pubblico. La dimensione principale del disco è il suono, quella del concerto è la relazione, il suono è secondario. Silver Apples non l’ho “registrato” su disco, l’ho scritto, creato, sul disco». L’ottantenne, lucidissimo, musicista americano non sa proprio stare nel presente, quando qualcuno iniziava a capire qualcosa dei sintetizzatori, lui già sperimentava i computer: «Ho smesso abbastanza presto di usare la strumentazione analogica, appena si sono affacciati i computer. Già negli anni ottanta ho iniziato a usarli anche dal vivo. Quando si pensa alla musica tutti hanno in mente qualcosa di chiaro, il suono di un pianoforte, di un violino, una melodia… Ecco sto aspettando il giorno in cui non sapremo più cos’è la musica».

Pezzi che cambiano: Grilletta e Porsugnacco*
settembre 22, 2013

Si dice che se molta musica negli anni è rimasta nascosta, è perché non era poi tanto il caso di tirarla fuori. Ciò è spesso vero, dunque non sempre. Non è vero per esempio nel caso di Grilletta e Porsugnacco, operina tripartita, del fiorentino Giuseppe Maria Orlandini, tra i maggiori compositori di drammi per musica del primo Settecento. La storia è quella archetipica del servo che ribalta la sua condizione e diventa signore, e prelude alla più nota Serva Padrona.
Il primo plauso va a Francesco Massimi, direttore e concertatore, che ha procurato di riportare alla luce la partitura, legando i tre intermezzi attraverso soluzioni e citazioni spiritose, introducendoli con una rapidissima sinfonia, brillante esercizio di stile non fine a sé stesso. Poi al regista, Giorgio Bongiovanni, che con delle trovate intelligenti ha compreso perfettamente lo spirito moderno di un teatro – quello satirico settecentesco – che nella velocità di comunicazione può insegnare molto persino al teatro contemporaneo. Infine agli interpreti, entrambi vocalmente dotati, ma anche buoni attori: Marco Rencinai, dall’ottima mimica e Francesca Tassinari, che nonostante la giovane età, già sa coinvolgere il pubblico con sguardi ammiccanti da impavida padrona – appunto – della scena.

Grilletta e Porsugnacco di G. M. Orlandini. Teatro Lirico Sperimentale, Spoleto

 

* v.o. della recensione apparsa oggi su Repubblica a pag. 57

Cosa penso davvero della musica di Giulia Mazzoni
agosto 30, 2013

Normalmente non torno sugli articoli già pubblicati, se non per particolari approfondimenti. Ma in troppi mi hanno chiesto di rendere conto di una mia intervista a Giulia Mazzoni, apparsa sul repubblica.it un paio di giorni fa. C’è chi chiede perché la Repubblica dia spazio a musica del genere (e questo va chiesto al giornale, non a me) e chi invece domanda espressamente a me perché non mi sia pronunciato criticamente. A questo intendo rispondere. Vorrei premettere che – sebbene molti lo giudicheranno così – questo non è un pezzo “riparatorio”, bensì una cortese replica a chi mi ha interpellato chiedendomi un’opinione. Il mio intervento non può essere pertanto confuso con una excusatio non petita, visto che mi è stata fatta una vera e propria richiesta.

Dalla redazione mi hanno chiesto di intervistare la “nuova Allevi” al femminile. Ho spiegato che non mi sembrava il caso, che non vedevo il motivo di farlo. Ma mi hanno poi convinto che sarebbe stata l’occasione per fare alla fortunata malcapitata (l’ossimoro non è casuale) un’intervista come la si farebbe ad Allevi, cioè incalzando sull’effettivo valore delle sue composizioni. In più, da giornalisti non potevamo ignorare che il primo video Giulia Mazzoni avesse in pochi giorni totalizzato un altissimo numero di visualizzazioni su YouTube. Mi hanno chiesto pertanto di fare un’intervista provocatoria sì, ma “british”, cioè senza opinione. C’è da dire che Giulia Mazzoni, che non è certo stupida, è stata molto onesta e trasparente nelle risposte. Con umiltà, non si è certo paragonata a chissà quali genî della musica e ha semplicemente risposto che non saprebbe definire la sua musica in altro modo se non contemporanea. Bisogna ammettere che, dal punto di vista strettamente terminologico, non ha alcun torto. La sua musica è contemporanea come quella di qualsiasi musicante d’oggi: Penderecki come Jarrett, Morandi come Fabri Fibra… Il livello qualitativo è un’altra cosa. In più la sua musica è particolarmente – ahimè – contemporanea proprio perché è l’ennesimo risultato di un approccio minimale-pop alla composizione strumentale: quello che chiamo – all’inizio dell’intervista – “easy listening”. Una cosa di moda, di tendenza, quindi stracontemporanea. Chiunque prenda parole come queste per “messaggio promozionale” non ha capito granché. Eppure sono pochi quelli che –  nonostante il mio tentativo di obbedire e rimanere neutrale – sono riusciti a scorgere una, pur sottile, critica al genere nell’intervista. Qualcuno vuole che mi esprima chiaramente. Ebbene, eccomi qui.

Cosa penso dunque della musica della cara Giulia? Penso che sia musica inutile. Inutile nell’orizzonte musicale. Ovvero non ci sono, in tali composizioni, i prodromi di alcuno sviluppo futuro. Non c’è pensiero, solo sentimento. Questo significa che, se tale musica ha una qualche utilità, essa è appannaggio di chi trova in quelle note una dimensione emotiva da condividere. E certamente ha un profondo significato per l’autrice stessa. In questo senso quindi la musica di Giulia Mazzoni ha ragione d’esistere, anche se a me non piace, anche se con il suo disco non ci faccio niente.

Gia altre volte mi ero scagliato contro il “banalismo” di certa musica – forte e chiaro contro Allevi all’interno della Guida o anche qui, in questo blog, per fare alcuni esempi; e direi che ciò basta a capire come la penso  – ma un’intervista non può essere una recensione. È solo la messa in luce di un fatto: gli ascoltatori giudichino.

Se Giulia Mazzoni sta leggendo queste righe, spero non se la prenda. Non disprezzo la sua musica, solo che non mi interessa. Del resto, quando ci siamo sentiti per l’intervista, l’avevo avvertita che l’avrei un po’ punzecchiata. E poi è giovane, è al primo disco, potrebbe stupire tutti quanti con il prossimo lavoro… Perché no?

P.S.: nell’intervista un errore oggettivo per cui scusarsi c’è. Ho scritto “conservatorio di Prato” ma a Prato non c’è alcun conservatorio musicale, bensì una scuola di musica. Mi era stato comunicato conservatorio e mi sono fidato senza verificare: mea culpa.

Il suono della materia
luglio 21, 2013

Dovremmo aver imparato che il mondo suona interamente e in continuazione e che le nostre orecchie non sono abbastanza sensibili da poter sentire tutto soltanto per evitare l’assordamento. Estrapolare il suono dalla materia non è un proposito meramente artistico: vuole anche dimostrare che, in quanto viva, la materia suona anche se non percossa. Gli esperimenti di Luca Pietro Congedo, percussionista e studioso di elettronica, sono vòlti proprio ad ascoltare la materia e farne musica. Homoioméreia, il progetto che porterà alla prossima Biennale Musica di Venezia l’8 ottobre, è un’opera performance per apparati percussivi (Perscultronic) costruiti da lui stesso con materiali spesso diversi da quelli normalmente usati per gli strumenti a percussione, quali il grès, l’alluminio, il mylar: «è una ricerca sull’ascolto – dice Congedo -. Porto con me delle sonorità che sono parte della mia vita; indago quello che succede attorno». Gli apparati percussivi sono un organismo complesso, ricco di automazioni e protesi; in alcuni casi vengono suonati percuotendoli direttamente, in altri a distanza, attraverso un sistema informatico: «Muovo comunque gli automi attraverso i miei gesti, con interfaccia a sensori sul mio corpo che pilotano le automazioni. Le protesi sono battenti multipli che consentono risultati impossibili con due sole mani».

Congedo si distinse tempo fa per essere stato l’autore del Mechanical Drum, un tamburo automatico di oltre tre metri di altezza e con 12 braccia che riproduceva il tamburo meccanico di Leonardo, capace di gestire tutte le dinamiche possibili.

 

Mechanical Drum

Mechanical Drum

 

Ma, automi a parte, l’aspetto più interessante dello studio di Congedo è quello puramente sonoro: «la mia è una ricerca sulla primordialità della materia: studio i miei oggetti dal punto di vista molecolare e chimico, e attraverso le indagini micrologiche trovo delle voci nascoste della materia: poi utilizzo i ritmi molecolari della materia stessa per comporre». È la materia stessa che suggerirebbe il suo suono, dunque. Si tratta di una vera e propria archeologia ontologica: «faccio una ricerca con l’utilizzo di microfoni a contatto, estrapolando dei suoni non udibili a orecchio nudo; poi utilizzo questi per combinarli con altri. Per esempio il gres porcellanato ha nella sua composizione dell’alluminio e così combino i suoi suoni con strumenti in alluminio». Congedo quindi ascolta la materia passando dalla fisica alla metafisica: non nel senso di andare oltre la materia, ma di entrarci proprio dentro. Ciò che risalta è la prospettiva corporea, timbrica, e non astratta che guida l’indagine: «il timbro è da un lato materico, quindi strutturale, dato dall’oggetto; dall’altro è gestuale, creato dal movimento – e dal corpo – che percuote».

Piastrella gres

Piastrella gres

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* versione integrale dell’articolo apparso sul Sole24Ore del 21 luglio 2013 (p. 14)

Recensioni che saltano
giugno 7, 2013

Su Demetrio e Polibio, opera più che giovanile di un Rossini appena quindicenne, sarebbero da dire moltissime cose. Quella inevitabile è la sua doppia valenza di exemplum e prototipo: da un lato è la dimostrazione di una maturità compositiva da scolaro modello che ha assimilato Mozart, Cimarosa e Pergolesi; dall’altro è per invenzioni, orchestrazione e forma il preludio al grande operista che sarà.

La storia è un gioco di coppie e di doppi che Davide Livermore ha rappresentato attraverso dei “fantasmi”, fedeli replicanti gestuali dei protagonisti. La ripresa della regia è di Alessandra Premoli, accolta alla prima non proprio calorosamente (si è purtroppo presa i fischi rivolti a Livermore) da un pubblico che mugugna: “troppo moderno e incomprensibile”. In effetti l’idea, comunque ben condotta, non aiuta la comprensione di una storia la cui trama già di per sé non è banale. Per fortuna gli interpreti hanno compensato: brava la Pratt, bravissimo Yijie Shi.

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Demetrio e Polibio, Napoli, Teatrino di Corte di Palazzo Reale